Indisciplinato lo era

Indisciplinato lo era, indubbiamente. Ripreso più volte dal locale consiglio ecclesiastico, vuoi per il suo comportamento indecente, vuoi perché ogni tanto alzava le mani, un giorno Alexander Selkirk pensò che l’unica cosa che avrebbe potuto fare nella vita sarebbe stata quella di imbarcarsi e diventare un corsaro.

Essere corsaro tuttavia non era mica una cosa così riprovevole, nel Settecento! Lo si faceva legalmente, per così dire. Le navi ricevevano una “lettera di corsa” e con questo documento qualsiasi capitano poteva trasformare la propria imbarcazione in una nave da guerra, al servizio di qualcuno, e di conseguenza attaccare le navi nemiche.

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C’era la guerra anche allora

C’era la guerra anche allora, ma non c’erano i social, e di conseguenza non c’erano neppure tutti gli esperti che in questi giorni dispensano sentenze, giudizi, consigli e previsioni, con la stessa facilità e sicurezza con cui ci si confronta sulla ricetta per fare la carbonara, e questa è una polemica che mi potrei risparmiare, ma quando volano le bombe non ce la faccio proprio a disquisire, sarà un mio limite.

C’era la guerra anche allora, dicevo, che poi sarebbe passata alla storia col nome altisonante di Grande Guerra del Nord, e chissà come passerà alla storia quella che si sta combattendo qui accanto, ma soprattutto chissà se ci sarà una storia tra qualche tempo, che magari rimarranno solo le formiche dopo un conflitto atomico, ma guarda se dovevo avere anche questa preoccupazione.

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Ognuno rimane con il proprio cognome

Chissà cosa avrà risposto mia madre a questa cartolina proveniente dall’Africa. Mio padre le domandava se avevo cominciato a camminare da solo – facendo i conti dovevo avere un anno e tre mesi – e poi mandava tanti baci a me e mia sorella.

E’ certo però che leggendo la parte destra della cartolina, là dove lui le dava il proprio cognome, la tenerezza della parte sinistra sarebbe rimasta un po’ in disparte.

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Alla fine degli anni Novanta

Alla fine degli anni Novanta è arrivato internet a casa mia, e con esso la possibilità di visitare posti e incontrare persone che non conoscevo e che forse non avrei mai potuto conoscere direttamente.

Un giorno, mosso dalla curiosità, ho preso un posto a caso negli Stati Uniti, Lockytown, una piccola cittadina assolata del Nebraska, e ho cercato ogni riferimento possibile ad essa. Ho trovato un giornale locale, il “Locky Chronicle”, che allora si poteva sfogliare gratuitamente e ho preso l’abitudine quotidiana di leggerlo, senza mai smettere. Nel corso delle settimane, dei mesi e degli anni, tante cose di quella piccola città mi sono diventate così familiari.

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2022

Si trovava così nei guai, Guglielmo III d’Inghilterra, con tutti quei debiti, che non sapeva più dove trovare i soldi per ripianarli. Con le tasse, certo, ma ci voleva anche fantasia, perché mica tutti le volevano pagare. E poi l’imposta sul reddito era doppiamente odiata, perché – dicevano – far sapere agli altri, il proprio reddito personale, toglieva privacy ai cittadini.

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“Io non volevo scrivere questa biografia”

Intervistato dal Corriere a proposito del libro che racconta la storia della sua vita, “Volevo essere Marlon Brando (ma soprattutto Gigi Baggini)”, Alessandro Haber ha raccontato come è nata l’idea della sua biografia.

“Io non volevo scrivere questa biografia. Lo consideravo un esercizio troppo autocelebrativo e poi tutto sommato non mi andava di scavare così a fondo nella mia vita, nelle pieghe dei miei conflitti. Non mi sentivo pronto. Poi invece con la pandemia ho avuto modo di ripensarci e ho capito che la mia storia in qualche modo riguardava tutti, perché mi interessava arrivasse ai lettori in maniera sincera e senza vergogna. Questo libro è stato il mio abbraccio con il pubblico.”

“Volevo essere Marlon Brando (ma soprattutto Gigi Baggini)”
di Alessandro Haber e Mirko Capozzoli
Baldini + Castoldi, 2021

Mica era facile come oggi

Mica era facile come oggi.

Tanto per cominciare, nelle farmacie si stava tutti insieme, tra sconosciuti, appoggiati al bancone, e tutti sentivano tutto. Potevano essere supposte, farmaci contro l’impotenza – che forse non esistevano ancora – oppure semplicemente preservativi, quelli per cui noi adolescenti si entrava, ma la privacy andava a farsi fottere, giusto per rimanere in tema. E ti sentivi tutti gli occhi puntati addosso, tra la riprovazione generale.

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Chissà a cosa pensi

Chissà a cosa pensi, mentre ti vesti come il tuo re, in quella torrida giornata d’agosto, forse pensi di morire, forse speri di no, ma l’idea non è stata tua, tu ti sei soltanto adeguato, magari lo fai con gioia, o forse con terrore, ed è un attimo, che già ti devi lanciare nella mischia, che battaglia quella giornata, e come ti guardano, sembri il tuo re, questo devi fare, e tutti ti danno addosso, ma tu ti difendi a più non posso, e quando proprio non ne puoi più, è il momento di morire, che è quello che dovevi fare, che dispiacere morire d’estate, ma te lo ha chiesto il tuo re, e i nemici che babbei, si mettono a festeggiare, perché pensano di aver vinto, di averlo ucciso, ed è in quel momento che invece hanno perso, che arriva davvero il re, quello originale, e la sorpresa è grande, tu sei morto per lui, e lui invece vivrà, e chissà come ti ricorderà.

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La battaglia era nella fase più cruenta

La battaglia era nella fase più cruenta, sotto al castello che da un momento all’altro poteva cadere nelle mani del nemico. Improvvisa, una sciabolata colpì il capitano nel petto, ed egli si accasciò con un gemito di dolore. I suoi soldati gli si fecero attorno, per proteggerlo e soccorrerlo. Quelli più vicini, si chinarono su di lui, gli aprirono la camicia per valutare la ferita, e forte fu la loro sorpresa, nel vedere che il loro capitano era una donna. Quell’uomo con cui avevano condiviso anni di fatiche e di battaglie, non era un uomo, era una donna!

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Il Canto degli Aretini

È un piccolo giardino recintato, tra via di Ripoli e via Accolti, a Firenze. Vi si passa accanto distrattamente, e quasi non lo si vede, circondato com’è da un bidone per la raccolta differenziata, un parchimetro e magari qualche bicicletta appoggiata di lato.
Saranno pochi metri quadrati.
In mezzo c’è una colonna, con una lapide.
I Fiorentini però lo conoscono bene, e gli Aretini ancora di più. Quel giardinetto infatti è ufficialmente territorio del Comune di Arezzo, pur essendo in centro a Firenze.
Furono proprio i primi a darlo ai secondi, nel lontano 1289, chiedendo loro di occuparsi per sempre della sua manutenzione.
E così è stato, da allora.

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Il più grande aereo del mondo

Lui era il più grande scrittore proletario dell’epoca, si chiamava Maksim Gorkij, e da poco avrebbe festeggiato quarant’anni dall’inizio della sua produzione letteraria. Come celebrarlo? Costruendo il più grande aereo del mondo e chiamandolo come lui. Pazzesco!

Era il settembre del 1932: l’Unione Sovietica voleva mostrare al mondo le sue capacità industriali, ma costruire un aereo del genere non sarebbe stato uno scherzo, occorrevano soldi, tanti soldi, e allora si promosse una raccolta fondi che coinvolse tutta la popolazione.

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Ricordi dimenticabili

Bisognava andarci piano, con quelli da 24 che finivano subito, ma anche quelli da 36 non è che durassero chissà quanto, più o meno durante una gita scolastica terminavi il primo rullino che ancora eri a cazzeggiare in fondo al pullman, e la bottiglia impietosa girava, girava, ma non si fermava mai dove avresti voluto.

Firenze, o Roma, o San Marino, erano ancora lontani e tu dovevi scartare il secondo rullino e infilarlo in quella kodak che ti avevano regalato per la Cresima e che ancora funzionava in maniera accettabile, restituendo dopo qualche giorno un pacchetto di fotografie che scorrevi velocemente, prima di infilarle in un portafoto di plastica, avendo cura di buttare in fondo a qualche cassetto della tua camera i negativi, che regolarmente andavano persi per sempre, ma tanto a cosa potevano servire, il presente era impegnativo, ma il futuro era soltanto una fantasia lontana.

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Certo, l’invenzione era davvero utile

Certo, l’invenzione era davvero utile, ma in quei giorni non potevano lontanamente immaginare che tutti i miei contatti di Facebook sicuramente l’avrebbero usata non dico una volta, ma più di una volta!

Anzi, sono abbastanza sicuro del fatto che tutti i miei contatti di Facebook ne abbiano un esemplare in casa e forse i miei colleghi guide di AIGAE Associazione Italiana Guide Ambientali Escursionistiche come me ne tengono uno anche nello zaino, che fa piacere quando incontri qualcuno con la suola staccata e gliela rimetti a posto.

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Vorrei scrivere

Vorrei scrivere di re Artù e di Guglielmo Tell, dello jus primae noctis e della paura dell’anno mille, della papessa Giovanna e di Alberto da Giussano, un bel libro di storia dedicato alle persone che non sono mai esistite ed ai fatti che non sono mai avvenuti.

Il Diario di Gherardo Burlamacchi

“…et poiché ho fatto la fatica di far iscriver, altri non doveranno fuggirla di leggier, e perché non mi voglio sottomettere alli errori o mancamenti che ci possino esser, né al rozo stile, o se una cosa è prima o poi, jo do licenza a ciascun che dichi quello che gli piace perché io non sono di profettion storica, né ha da andar a la stampa…”

E invece ci andò eccome in stampa, il diario del mercante lucchese del Cinquecento Gherardo Burlamacchi, sotto forma di un paio di tesi di laurea, una la mia, giusto oggi, un po’ di anni fa; una della mia amica Maria Luisa Cherubini, che mi aveva preceduto qualche anno prima, sempre presso l’Università degli Studi di Pisa.

La seconda cosa bella della mia vita.

Tornava a casa poco prima di cena, mio padre

Tornava a casa poco prima di cena, mio padre, e mi dava il Corriere della Sera che aveva comprato la mattina. Io prendevo questi fogli giganti – allora non c’era il formato tabloid di oggi – li stendevo sul pavimento del salotto, e mi mettevo a leggere.

Avevo imparato da poco, a leggere, e quindi all’inizio riuscivo a comprendere solo i titoli; poi con il passare del tempo anche l’occhiello, che sta sopra, e i sottotitoli, che stanno sotto. Più tardi, gli articoli interi, con i loro caratteri minuscoli.

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Giornata mondiale dei legumi

“Con la riforma di Carlo Magno sia le abbazie che i grandi feudi avevano dato impulso a nuove colture, e il X secolo è stato definito come il secolo pieno di fagioli. L’espressione non va presa alla lettera perché i fagioli che conosciamo noi arriveranno solo con la scoperta dell’America, e l’Antichità conosceva al massimo i fagioli detti dell’occhio. Ma l’espressione è esatta se il termine fagioli sta per i legumi in genere, e il X secolo aveva visto, con profondi mutamenti nella rotazione delle colture, una coltivazione più intensa di fave, ceci, piselli e lenticchie, tutti legumi ricchi di proteine vegetali.

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Avevo compiuto da poco sei anni

Avevo compiuto da poco sei anni, cinquant’anni fa, e mica lo sapevo che in Svizzera le donne non potessero ancora votare.

Mia mamma votava eccome, e anche le mie zie, e le mie nonne pure. Mi sembrava una cosa così normale!

Ma in Svizzera no, non lo si poteva ancora fare. E nemmeno potevano essere elette, le donne.

In Svizzera!

Il 7 febbraio 1971, dopo 100 di lotta femminista, le donne svizzere ottengono il diritto di votare e di essere elette.

Era la vigilia di Pasqua del 1523

Era la vigilia di Pasqua del 1523.

Katharina, nascosta tra i barili di aringhe che il mercante Koppe trasportava con il proprio carro, fuggiva finalmente dal monastero della Sassonia in cui suo padre, alcuni anni prima, l’aveva rinchiusa.

Era rimasta orfana di madre in tenera età, ed egli aveva pensato che un monastero benedettino prima, ed uno cistercense dopo, sarebbero stati per lei la soluzione migliore. Lì Katharina aveva imparato a leggere, a scrivere, e a sedici anni aveva preso i voti.

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A cosa servono le ragazze

What girls are good for.
A cosa servono le ragazze.

Era il titolo di un articolo piuttosto maschilista che apparve su un quotidiano di Pittsburgh, negli Stati Uniti, all’incirca nella seconda metà dell’Ottocento.

Una ragazza, dopo averlo letto, prese carta e penna e replicò sdegnata alle tesi del suo autore. Le parole che lei usò, colpirono così tanto l’editore del giornale, che dopo averne pubblicato la lettera, decise di rintracciarne l’autrice, per conoscerla.

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Per la ricchezza e per gli onori

Le vicende che sta vivendo il nostro povero Paese in questi giorni sono davvero desolanti, e mi fanno tornare in mente un episodio che non so più se reale o leggendario, legato ad un vescovo vissuto intorno al XIII secolo, mi pare si chiamasse Gregorio Romano o giù di lì.
Il prelato, dopo aver trascorso l’intera esistenza al servizio della Chiesa, in punto di morte rifiutò l’estrema unzione, affermando – tra lo sbigottimento dei presenti – che non credeva in Dio.
“Ma come” – gli chiesero allora – “se è stato tutta la vita vescovo!”
“Ma l’ho fatto solo per la ricchezza e per gli onori!”, rispose sincero il buon Gregorio.

Sarà il mille e qualcosa

Sarà il mille e qualcosa, ed una notte non riesci a dormire, chissà perché, senti un rumore strano, ti affacci alla finestra, ma quelli sono saraceni!, ti stropicci gli occhi, sono proprio dei pirati!, e che ci fanno qua sotto, bisogna dare l’allarme, raggiungere i consoli, e allora corri, corri a perdifiato, riesci ad avvisarli, le campane suonano tutte, la gente si sveglia, oddio i saraceni!, sono sotto le finestre, prendi tutto quello che hai vicino e buttalo di sotto, volano sedie, tavoli, pezzi di ferro, oggetti, e chi più ne ha più ne metta e allora va bene anche il cibo, vola l’olio, vola la farina, e anche sacchi di ceci, e i saraceni scappano, e che gioia il giorno dopo, siamo salvi, ma che casino per le strade, c’è di tutto, e che fame, e questo cosa è, forse un miscuglio di farina di ceci e di olio, che si è rappreso al sole, sai che c’è, io la assaggio, ho una fame che non ci vedo, questa roba è deliziosa, forse stiamo vivendo in un sogno o in una leggenda, tu ti chiami Kinzica, sei una ragazza, stanotte hai salvato la città di Pisa e per caso è nata la farinata di ceci, dio che bontà.

La prima volta

La prima volta avevo solo sedici anni, la ricordo ancora benissimo, ricordo il piacere, ma anche l’imbarazzo e la vergogna; erano altri tempi, e pareva davvero strano. In ogni caso, da quel momento in poi, cominciai a vedere il mondo in un modo diverso.

L’ultima volta è stata ieri, l’imbarazzo e la vergogna sono passati, ormai sono un adulto, è rimasto il piacere, sebbene un po’ diverso. E’ una cosa che ti apre la mente, ti permette di vivere meglio, è come se ti desse una chiave di lettura delle cose, più incisiva e profonda.

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Che gli importava a lui della fine dell’anno

Che gli importava a lui della fine dell’anno.

Che poi non era una fine dell’anno qualsiasi, era la fine dell’anno novecentonovantanove, e dopo poche ore si sarebbe entrati nel mille.

Chissà se qualcuno era spaventato, di fronte ad una data simile. Mille e non più mille, avrebbe scritto secoli dopo Giosuè Carducci, alimentando una leggenda che in realtà non aveva alcun fondamento. La gente era spaventata? No, la maggior parte della gente nemmeno sapeva che giorno fosse, e anche quando si trattava di indicare la proprià età, tiravano un po’ a indovinare, che non si contava anno per anno, ma giusto per decennio. Avrà cinquant’anni, avrà quarant’anni circa, si diceva. Raramente, qualcuno indicava trentacinque, venticinque. Non si scendeva mai in questo grado di dettaglio.

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I cognomi

Il cognome paterno che per legge da solo ti porti dietro è implacabile, semina dietro di sé tutti quelli che lo hanno in qualche modo preceduto, che hanno contribuito a farti diventare quello che sei, e si prende un merito che ha solo in parte.

C’è tutto un miscuglio di persone che nelle decine e decine di anni precedenti sono state le origini della tua famiglia e il cui ricordo si perde col tempo.

Il tuo cognome si prende un diritto che non avrebbe, o per lo meno non avrebbe soltanto lui, è figlio di una convenzione che ci portiamo dietro e chissà per quanto tempo ancora sarà così. E anche se magari riuscissimo un giorno a conservare pure quello di mamma, sarebbero soltanto due i cognomi che per praticità ci portiamo dietro, e tutti gli altri si perderebbero per strada, sconfitti dalla sorte e dagli incroci dinastici.

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La Nave Bianca

Il comandante e proprietario della Nave Bianca si chiamava Thomas FitzStephen ed era orgoglioso di possedere una imbarcazione così veloce e moderna. Anche suo padre, che si chiamava Stephen FitzAirard, era stato capitano e proprietario di una nave che si chiamava Mora e che era stata al servizio di Guglielmo il Conquistatore.

Quella notte, novecento anni fa, il figlio Thomas FitzStephen pensò che sarebbe stato molto bello ospitare a bordo della propria nave il re Enrico I, che dalla Normandia doveva fare ritorno in Inghilterra. Purtroppo, il re aveva già organizzato il proprio rimpatrio a bordo di un’altra imbarcazione, e quindi declinò l’invito; ma suggerì che la Nave Bianca avrebbe potuto seguire la sua, ospitando il proprio figlio Guglielmo ed il resto della nobiltà che dovevano compiere lo stesso tragitto. E così fu.

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