Conoscere le lingue

“Serve ancora imparare le lingue straniere?”, è il titolo di un articolo apparso su Repubblica qualche giorno fa, considerato che ora ci sono app e strumenti vari per tradurre in automatico.

Io penso di sì, e lo dice uno che le mastica malissimo, pur essendo affascinato da alcune di esse, come ad esempio il portoghese, che ho studiato all’università molto tempo fa.

In genere le confondo, in una frase metto una parola di una lingua e una di un’altra, suscitando ilarità nei miei interlocutori, per cui alla fine tendo a stare zitto, che male non è.

Sapere – ma bene eh! – una lingua straniera ti può salvare la pelle, e nel corso della storia ce ne sono diversi di episodi – veri o leggendari – in cui pronunciare bene o male una parola ha voluto dire salvare o perdere la vita.

Già nella Bibbia si racconta di un popolo, i Galaaditi, in lotta con un altro popolo, gli Efraimiti, e quando questi ultimi ormai sconfitti cercano di fuggire, i primi per riconoscerli chiedono ad ogni persona che incontrano di pronunciare la parola shibboleth, che probabilmente vuol dire spiga, e che è di difficile pronuncia per chi non è originario del Galaad; tutti quelli che non ci riescono, vengono uccisi.

Ma anche durante i Vespri Siciliani, gli abitanti dell’isola a caccia di Francesi, domandano a chi incontrano, di pronunciare la parola ciciri (ceci) e chi non ci riesce, adieu.
Sempre ceci, sempre leggende, pure i Sardi chiedono ai Piemontesi di pronunciare la parola cixiri, e se non ce la fai, zac.

Non è leggenda, ma tragica storia, quando negli anni Trenta del secolo scorso avviene una sorta di pulizia etnica, nella Repubblica Dominicana, nei confronti degli Haitiani che si trovavano a viver lì. I soldati vanno in giro con un rametto di prezzemolo, chiedendo a coloro che incontrano, di cosa si tratta.
Se questi non riescono a pronunciare il suo nome, vengono massacrati a coltellate, e sono qualche decina di migliaia gli sventurati che subiscono quello che è passato alla storia come “Massacro del prezzemolo”.

Oggi massacrare popoli è più semplice, si inseriscono le coordinate in un computer, si fa partire un missile o una bomba, e chi se ne frega se va a colpire una caserma, un ospedale o un mercato e che lingua parlano al loro interno.

Forse, da questo punto di vista, non è più così importante conoscere le lingue.

La ginestra

Ragazzi, fermiamoci un attimo, posiamo gli zaini, guardate che bello questo sentiero che passa in mezzo alle ginestre fiorite!

Mi viene in mente un episodio avvenuto tanti anni fa, in Francia, verso il 1127. C’era un giovane nobile di quattordici anni, si chiamava Goffredò d’Angiò, detto il Bello, che trascorreva lunghe ore in giro con il suo cavallo lanciato al galoppo.

Un giorno il cavallo si spaventa per qualcosa, si imbizzarrisce, e cade in un dirupo. Il giovane riesce a non cadere nel precipizio aggrappandosi ad un arbusto di ginestra e rimane lì penzolante finché i suoi uomini, non vedendolo tornare, lo vanno a cercare e lo liberano da quella scomoda posizione.

Quella sera, al castello, è festa grande, e Goffredo, attento ai segni del destino, decide di mettere un fiore di ginestra sul suo cappello, ogni giorno. E i suoi figli, e i figli dei suoi figli, fanno lo stesso, a tal punto da venire ricordati per sempre col nome dell’arbusto miracoloso: i Plantageneti (planta genet, pianta di ginestra).

Mi passi l’acqua per favore? Ma non è finita.

Si chiamarono così quattordici re d’Inghilterra, una dinastia che – compresi i rami cadetti degli York e dei Lancaster, regnò sul paese per più di trecento anni.
A dire il vero, i Plantageneti del ramo York scelsero come simbolo un fiore più nobile, la rosa, e lo stesso fecero quelli del ramo Lancaster. Una rosa bianca, per i primi, e una rossa per i secondi, a rimarcare una differenza che via via sarebbe diventata dissidio, fino a sfociare in una vera e propria guerra, la Guerra delle due rose, che si combatté fra il 1455 e il 1485.

Io penso che possiamo fermarci a mangiare, qui.

L’ultimo re di questa lunga dinastia, fu Riccardo III, che Shakespeare, nel suo celebre dramma, volle deforme e malvagio, e quando questi rimane sconfitto sul campo di battaglia, vicino alla morte, gli fa esclamare la famosa frase “Il mio regno per un cavallo”. Roberta, lo cerchiamo questo dramma?

Curioso, no, una dinastia che inizia e termina con un cavallo.

Oggi la ginestra è quasi un problema, cresce dappertutto, senza bisogno di trattamenti, non sappiamo cosa farcene, ma una volta non era così, pensate che se ne ricavava una fibra tessile simile a quella del lino e della canapa. Se non ricordo male, a Pompei, sono stati ritrovati resti di abiti con questa fibra.

Quando ci passiamo ricordiamocelo, e domandiamo!

Ma anche nel periodo dell’autarchia, dove sei L. questo è per te, dopo le sanzioni all’Italia, c’era carenza di materie prime e la produzione di fibre di ginestra ebbe grande impulso, pare che intorno al 1942 ci fossero più di sessanta ginestrifici.

Se vi capita di vedere una G nell’etichetta di un vestito, bè, c’è la ginestra.

E le poesie? Ce n’è una di Giacomo Leopardi che si intitola proprio così, e e poi viene citata anche da Gabriele D’Annunzio ne La pioggia nel pineto. Anzi, mentre ci riposiamo un po’, perché non le leggiamo?

Poi ci rimettiamo in cammino.

Strade Maestre – Fare scuola con la pratica del cammino.

È proprio vero che la storia si ripete

Non si sapeva bene, quando sarebbero usciti, i quadri. Ma quell’anno sapevo che per me ci sarebbe stata una brutta sorpresa.
Non ero bravo a scuola, ma la dura battaglia per la promozione riuscivo sempre a vincerla, vuoi per una certa propensione alla generosità degli insegnanti, vuoi per qualche colpo teatrale che mettevo a segno durante le ultime interrogazioni, vuoi per motivi che ancora oggi mi risultano ignoti.

Ma da qualche settimana, la possibilità di essere rimandato in una o più materie alla fine della terza, sembrava sempre più una certezza, a tal punto che avevo cominciato a sondare la famiglia per sapere come l’avrebbero presa.
Non gliene importava nulla.

Rassicurato da questo disinteresse, la mattina in cui tramite rapide telefonate si era sparsa la voce della pubblicazione dei quadri, ero andato lesto al liceo per conoscere la mia sorte, ma anche per godere di uno spettacolo che ormai era diventato una sorta di tradizione.

Un amico infatti, che quasi sempre veniva rimandato, aveva preso l’abitudine di manifestare il suo disappunto mandando in frantumi il vetro della bacheca dove erano affissi i risultati, e fu così anche quell’anno.
Una specie di evento che annunciava l’inizio dell’estate, così come i fuochi d’artificio a Marina ne decretavano la fine.

A quell’atto di eroica ribellione – che veniva festeggiato da tutti noi con urla di approvazione – quell’anno partecipai un po’ mestamente, perché comunque con la coda dell’occhio avevo visto che nella riga che portava il mio nome era chiaramente indicato che ero stato rimandato.

La matematica è una delle cose più noiose che siano state inventate e, per quanto mi riguarda, anche tra le più incomprensibili. Mentre tornavo a casa camminando lungo quel marciapiede assolato, pensavo a quanto sarebbe stato bello essere rimandati nelle materie che ci piacciono e ci riescono meglio, anziché in quelle dove siamo scadenti e che non ci piacciono. Una stupidaggine.

Trascorsi l’estate con quelle cose orribili che si chiamano equazioni, disequazioni, parabole, funzioni e via discorrendo, che mia sorella, con infinita pazienza, cercava di spiegarmi. Mentre gli amici magari erano prima a fare il bagno nel fiume e poi a festeggiare un compleanno, io ero lì a risolvere problemi con i logaritmi e altre amenità e pensavo loro.

L’estate passò presto, l’esame di riparazione fu una bischerata, e l’anno fu salvo.

Sono trascorsi più di quarant’anni da allora, e anche quest’estate trascorro le giornate a studiare, ma oggi è più divertente. Mi devo preparare per un impegno importante e le materie che studio le amo. Gli amici magari continuano a fare il bagno nel fiume e a festeggiare un compleanno e io sono lì a ripassare la Guerra dei Trent’anni, e continuo a pensare a loro.

È proprio vero che la storia si ripete.

Magari la scuola va a gonfie vele

Magari la scuola va a gonfie vele, e fra pochi giorni arriverà l’ennesima promozione. Oppure la scuola non è un granché, magari arriva una bocciatura, o qualche materia da recuperare.

Forse sei un po’ bullo, ma non ti trovi tanto in questa condizione. Oppure sei bullizzato, e neppure a te piace questa condizione. Magari venite insieme.

Per fare l’Erasmus è troppo presto, e pure Intercultura non c’è stato modo di farla, però magari ti piacerebbe fare un’esperienza nuova, e questa potrebbe fare al caso tuo.

Forse a scuola non ci vai proprio più, ma non sei sicuro che sia stata la scelta migliore, e vuoi darti un’altra possibilità.

Ci sono mille motivi per partecipare.

Il 16 settembre 2024 parte Strade Maestre, un innovativo progetto educativo che prevede di fare scuola con la pratica del cammino. Un autobus da prendere al volo, anche se si va a piedi.

Ci sono ancora alcuni posti liberi, io se avessi l’età giusta non avrei dubbi e parteciperei. Per fortuna posso farlo da grande, come guida insegnante.

Tutte le informazioni nel sito, e se hai qualche dubbio, scrivi una mail.

www.strademaestre.org

Una scuola lunga mille chilometri.

Da dove comincio

C’è imbarazzo, da dove comincio, mi chiedi, da dove vuoi, rispondo, forse da bambino, può essere un’idea, comincia il racconto, che poi si interrompe, faccio una domanda, ottengo una risposta, e poi si divaga, la storia è interessante, andiamo fino in fondo, ma poi torniamo all’inizio, questo non interessa a nessuno, dici, a me invece interessa, dico, e si prende un’altra strada, vedi che avevo ragione, e i nomi diventano tanti, qualcuno lo confondo, interrompo un istante, ma questo chi sarebbe, l’imbarazzo è passato, la conversazione è piacevole, i dolori vengono fuori, quella è una lacrima, ma pure le gioie, quello è un sorriso, mi ripeti una parola, il taccuino si riempie, questa te la racconto io, e tu mi ascolti, ci facciamo un caffè, mentre pensi ad una cosa, e con la tazzina in mano, poi me la dici, sarebbe bella una foto qui, ce l’ho, la devo solo trovare, magari la prossima volta, sono passate due ore, fermo il registratore, la tua storia sta diventando un po’ mia, sarà bellissima, vedrai.

Il mestiere di biografo, da quasi trent’anni.

C’est le guet

Mi sveglio la notte, forse sono i sogni o i pensieri, giro per casa, guardo dalla piccola finestra, tutto va bene, la gente dorme, solo i gatti sono in giro, non c’è motivo di allarmarsi, ecco a destra il profilo del campanile, vorrei essere lì sopra, portare le mani a fianco della bocca e gridare, con tutto il fiato che ho in gola, “sono la sentinella, sono le due di notte, sono le due di notte”, e non ci sono incendi né pericoli, ma non siamo nel Quattrocento, la gente non gradirebbe, forse solo a Losanna, le guet continua a gridare ai quattro venti “c’est le guet, il a sonné deux, il a sonné deux”, ma lì è tradizione, e nessuno si lamenta, anzi guai ad interromperla, ma che vado a pensare, torniamo a letto che è meglio, magari una sera d’estate lo faccio davvero, passare la notte in cima al campanile ed ogni ora gridare che tutto va bene, che male c’è.

Aver paura

Forse mi esortava a non avere paura.

Ogni volta che torno a casa dei miei, non posso fare a meno di rovistare nel cassetto delle fotografie.
Quando lo apro, si sente forte quell’odore di celluloide dei negativi, che sa di passato lontano.

Prendo un pacchetto a caso, e lo guardo. Non mi ricordo quasi nulla, ogni foto è una sorpresa.
Vacanze al mare, su in Toscana; vacanze in campagna, giù in Umbria. Un su e giù che per tutta la vita non ho smesso di fare.
Rari viaggi di famiglia modesta, volti sorridenti e talvolta imbronciati di cugini e di zii. Facce che potrebbero essere degli uni o degli altri, tanto si somigliano.
Cugini che sono diventati zii, e magari anche nonni a loro volta.

Chissà che giorno era, forse ’71, probabilmente una domenica, sicuramente d’estate.
Se fosse ancora vivo gli direi mi dispiace, ma non ci sei riuscito, io ho paura di tutto.

La scienza e la tecnica vanno avanti

La scienza e la tecnica vanno avanti, è nella natura delle cose, e quindi anche in Alabama c’è grande fermento per questo nuovo metodo di condanna a morte, che sarà provato credo domani.

Il fatto è che il condannato già in passato era stato sottoposto alla pena capitale, ma nonostante gli avessero infilato gli aghi dappertutto, non c’è stato verso di iniettargli la sostanza, pare che lui non fosse collaborativo, pensa te che maleducazione. Adesso gli applicheranno una maschera particolare con la quale gli faranno respirare un po’ di azoto, fino ad ucciderlo. Questo in teoria, perché poi non si sa mai come vanno le cose, uno inizia in un modo e finisce in un altro, magari si rompe la maschera e muoiono anche tutti quelli intorno.

Gran brutto mestiere quello del boia, c’era un tempo in cui la riprovazione generale nei confronti di questi assassini di stato era talmente forte che anche i panettieri mostravano il loro sdegno mettendogli il pane al rovescio sul bancone. Erano dovute intervenire le autorità con un provvedimento legislativo, perché questa intolleranza nei confronti dei boia doveva essere interrotta il prima possibile, mica si poteva correre il rischio che nessuno volesse più fare quel mestiere.

La legge era piuttosto scarna ma chiara anche nella sua brevità: “Chi non accetta il boia come cliente diventa cliente del boia” e i panettieri per continuare a mostrare sdegno senza incorrere nei rischi che questo comportava inventarono il pancarré, che aveva la stessa forma sopra e sotto e quindi non si poteva capire più se veniva somministrato con spregio oppure no.

La pena di morte è una delle cose più miserabili che siano state inventate dall’uomo, l’uccisione a sangue freddo di una persona fa parte di quelle cose orrende che la nostra intelligenza riesce a partorire, e ci sono molti appassionati del genere pure adesso, pure tra i nostri vicini di casa o tra i genitori degli amichetti dei nostri figli, che magari festeggiano i compleanni dei loro pargoli con tartine di pancarré.

Guida Ambientale Escursionistica

D’accordo scrivere biografie, ma poi la domenica che si fa? Escursioni! Dal 2016 sono anche Guida Ambientale Escursionistica, e sono tra i promotori del Cammino di Germanico, un anello di 75 km circa che si sviluppa attorno all’antica città di Amelia e che raggiunge via via tutte le sette splendide frazioni che la circondano. Mi piace accompagnare le persone lungo questo percorso, raccontando le infinite storie (ah le storie!) che lo riguardano.

2024

Credo sia la parola dell’anno 2023, non ce la siamo mai fatta mancare in ogni ambito, anche se pure “povertà” non è stata da meno. A pensarci bene, anche l’anno precedente è andata così, e sono sicuro che pure il successivo sarà caratterizzato da entrambe.

Il fatto è che l’umanità non riesce a provare vergogna per le sue azioni, siamo probabilmente la specie peggiore mai apparsa sulla terra, combiniamo guai a non finire, mentre corriamo veloci verso l’estinzione. Litigando, s’intende.

Con queste premesse, pare fuori luogo augurare un buon 2024 a tutte le persone che passano di qui, ma lo faccio lo stesso, con un pensiero speciale a tutte quelle che combattono battaglie – quelle sì legittime – per la propria salute, alle quali mando un affettuoso, positivo e fortissimo abbraccio.

Non è da tutti

Forse fu un’idea di Blasio de Arboribus, o forse di Niccolò Carcavilla, o forse ancora di Niccolò Sorbolo, non si è mai saputo, o forse di tutti e tre insieme, che erano matti e visionari mica poco, con quella proposta di spostare le navi per strada. E che strada, che nemmeno c’era, si sarebbe dovuta costruire pure quella!
Il fatto è che Venezia nel Quattrocento era in guerra con Milano, e poiché il lago di Garda era terreno di battaglia, sarebbe stato comodo per Venezia disporre di navi per poter combattere anche lì.

Ma le navi erano nell’Adriatico, mica nel lago, e anche se qualcuno avesse provato a risalire l’Adige per avvicinarsi, poi ci sarebbero stati chilometri e chilometri di montagne da superare!

Eppure tante imprese impossibili sono tali finché qualcuno non decide di realizzarle.

Furono inventati macchinari, furono impiegati centinaia di uomini, fra sterratori, falegnami, carpentieri, operai, marinai e gente del posto, che se c’è da spostare una nave che fai, non dai una mano? Furono impiegati anche decine e decine di buoi per tirarle in salita e poi con le funi tutti a reggerle che in discesa se avessero preso il via altroché lago di Garda, c’era il rischio che finissero nel mar Tirreno.

Mesi e mesi di lavoro, larghe tavole di legno sulle quali i rulli con le navi sopra si potevano spostare più facilmente, e se si incontrava una casa sul percorso la si buttava giù, perché ogni deviazione sarebbe stata complicata, meglio seguire il percorso più breve. Anche il vento fu utilizzato, che se è contrario riesce a frenare le navi in discesa, bastava pensarci.

Nell’aprile del 1439 l’incredibile convoglio di navi trasportate per strada raggiungeva il lago di Garda e calate in acqua, erano pronte per la battaglia. Ma questa sarebbe stata compito di soldati e marinai, che quelli che le avevano spostate andarono piuttosto all’osteria a raccontare di cosa erano stati capaci, non è da tutti portare le navi in giro per le montagne.

Si chiamavano Centoporte

Si chiamavano Centoporte, perché ogni scompartimento aveva il suo ingresso separato. Le panche erano di legno, e l’atmosfera ricordava vagamente il vecchio west, ogni volta che passavamo in mezzo alla pineta di San Rossore ci aspettavamo un assalto degli indiani. Noi eravamo tutti pendolari, la maggior parte andava a Pisa all’università, qualcuno già lavorava e scendeva prima.

Io salivo a Massa, il tragitto non era lungo, una quarantina di km, ma non credo si arrivasse mai a cento all’ora, e ci voleva un po’, sia per le fermate continue, sia perché era veramente un trabiccolo, l’alta velocità esisteva solo nelle menti dei progettisti.

Si narra che una volta degli sventurati sulla linea che invece veniva da Lucca, a bordo di una littorina diesel, fossero stati costretti a scendere e a spingerla perché si era fermata, chissà se qualcuno si ricorda quell’episodio.

Centinaia di persone assonnate a bordo, centinaia di storie diverse, la giornata davanti a noi che era tutta da giocare, gli zainetti pieni di sogni, la persona che ci piaceva che saliva alla fermata successiva, l’odore di malizia profumo d’intesa o di dopobarba mennen, sembrava tutto più bello di ora, ma non è così, eravamo solo più giovani, erano gli anni Ottanta, sembra ieri.

Non so chi sia la persona più ricca del mondo

Non so chi sia la persona più ricca del mondo adesso, forse Musk, o Gates, o Bezos, chissà, ma so chi lo fu tanto tempo fa, si chiamava Mansa Musa, imperatore del Mali a partire dal 1312.

Alcuni studiosi hanno stimato che il suo patrimonio, rapportato alle cifre attuali, oscillasse fra i quattrocento e gli ottocento miliardi di dollari.

Si racconta che in occasione di un pellegrinaggio alla Mecca, poiché non amava molto la solitudine, si fece accompagnare da sessantamila persone e dato che c’era anche da dodicimila schiavi il cui compito era quello di portare ciascuno sulla testa un paio di kg d’oro, hai visto mai che hai bisogno di comprare qualcosa in viaggio.

Era anche generoso, se lo poteva permettere certo, ma a volte i ricchi sono pure un po’ taccagni, ma lui no, durante questo pellegrinaggio, che durò un paio d’anni, regalò enormi quantità di oro ad ogni povero che incontrò sul suo cammino, e ogni venerdì, fece costruire una moschea.

Portò così tanto oro che all’Egitto regalò una dozzina d’anni di inflazione.

Il figlio fu un dissoluto e cominciò a sperperare, senza tuttavia cadere in povertà; chissà cosa faranno invece i rampolli di Musk, Gates, Bezos, ma un minimo di spalle coperte dovrebbero avercele pure loro, in caso contrario un aiuto non si nega a nessuno, fatecelo sapere.

La pagina bianca, per iniziare a raccontare la storia di una vita

Tante ore trascorse ad ascoltare e a prendere appunti.
Le domande per capire meglio, il piacere di conversare.
Le centinaia di pagine di trascrizioni, fatte a mano, perché riascoltare i dialoghi ti fa scoprire cose che al momento ti erano sfuggite.
L’elenco degli episodi, le cose che ti hanno colpito di più, quelle che la persona vuole che ci siano.
I personaggi che diventano familiari.
La pagina bianca, per iniziare a raccontare la storia di una vita.
Le dita che cominciano a battere veloci sulla tastiera, ed è tutto un fluire di emozioni.
Il mestiere di biografo, da quasi trent’anni.

Ci proviamo?

Ti ricordi cosa ti dissi qualche anno fa? Tutto quello che avremmo dovuto fare insieme, dove saremmo dovuti arrivare? E la gente che diceva “ti abbandonerà prima”, “la lascerai per un’altra”.
Ci proviamo per i quattrocentomila?
Panda 4×4.

Passo dopo passo

Stringere i lacci degli scarponi, indossare lo zaino, cercare di pensare a tutto quello che ci dovevamo portare, che tanto poi qualcosa si dimentica sempre, e poi passo dopo passo cominciare a camminare.
Percorrere il Cammino di Germanico, un itinerario ad anello che collega la città di Amelia con le sue sette frazioni, vuol dire anche camminare sul cibo, o meglio accanto al cibo, perché il cibo non lo si calpesta, lo si sfiora con i nostri passi leggeri.
In città si guardano le case, le pietre, i monumenti, ma poi presto ci si infila nella natura, e lo spettacolo cambia.
Di cibo, da queste parti, ce n’è dappertutto. Quando i campi prendono il posto dei boschi, e la montagna degrada dolcemente in collina o pianura, è facile osservare distese di cereali, che a seconda della stagione assumono un aspetto diverso.
Orzo, farro, avena, e poi il grano, che all’inizio dell’estate assume un colore giallo pallido, poco prima della mietitura, con le sue spighe che si muovono all’unisono quando colpite dal vento, e disegnano onde fantastiche.
Dopo qualche tempo, la fatica si sente meno, che il corpo umano è un po’ come una macchina che si deve scaldare, prima di funzionare al meglio. Le gambe si muovono da sole, camminare è una pratica antica, l’uomo è stato prima di tutto nomade, e lo era proprio per cercare il cibo.
Talvolta, al posto dei cereali, ci sono i legumi, come le antiche cicerchie, che qualcuno ancora ricorda, oppure i ceci, che crescono bene anche in terreni poveri. E poi lei, la fava cottora, che qui è regina e ha trovato un posto d’onore.
La meta della giornata spesso appare d’improvviso, dopo una curva, uscendo dalla radura, in cima alla salita. Si riconosce un centro storico, si vede un comignolo che fuma, oppure si sente l’odore di una minestra sul fuoco. Le voci delle persone, il sentiero che diventa strada.
Quando ci si avvicina ai paesi, appaiono gli orti, più comodi, talvolta recintati per evitare che gli animali selvatici li possano rovinare. Anche lì un tripudio di colori, a seconda delle stagioni, dove capita spesso di vedere anziani chini, intenti a curare con le mani rugose la piccola insalata che spunta dal terreno.
Gli occhi si guardano attorno, chissà dov’è il posto dove andremo a dormire, una voce ci chiama, una signora che ci invita a prendere un caffè, che un tempo questo paese, era pieno di gente, ma adesso sono andati tutti via, e vedere facce nuove è sempre una festa.
Il cibo non sta solo per terra, svetta anche in cielo, sugli alberi da frutta che offrono riparo dal sole al camminatore, e che sono adorni di doni dolci e preziosi. La frutta antica, così si chiama, recuperata da un passato dove pesticidi non esistevano, magari meno bella di quella moderna, ma certo più sana e sicura.
Quanti ricordi la tappa di oggi, e già si pensa a quella di domani, con un occhio al cielo per capire se pioverà o se ci sarà il sole, ma tanto che importa, si va lo stesso.

Fu una lettura estiva

Fu una lettura estiva, di quelle che dovrebbero essere spensierate, e che invece si sarebbe rivelata come un cazzotto nello stomaco.

Erano i primi anni Ottanta, l’adolescenza un po’ così, ma tutti sembravano contenti ed io cercavo di adeguarmi, i pomeriggi trascorsi nella biblioteca di Carrara, dove i libri avevano un buon odore che non avrei mai più dimenticato.

La dittatura in Grecia era terminata da un pezzo, e la vita straordinaria di Alexandros Panagulis pure, quando venne pubblicato “Un uomo” di Oriana Fallaci. Lei aveva promesso a lui che quella vita l’avrebbe raccontata, e quanto dolore in quella vita, quanta sofferenza, quanto eroismo.

Le torture di ogni genere, fisiche e mentali, che anziché sortire l’effetto sperato, sembravano solo accrescere l’incredibile forza d’animo di quest’uomo che con ogni mezzo aveva cercato e cercava di opporsi alla dittatura dei colonnelli.

Anche con il tirannicidio, che reputava legittimo in una situazione del genere. Era proprio il 13 agosto del ’68, il giorno del fallito attentato contro il dittatore, la bomba che non esplode al passaggio dell’auto, e Panagulis – che aveva orchestrato l’agguato – finisce in galera dove gliene fanno di tutti i colori e il libro di Fallaci non tralascia nulla di quel lungo orrore.

Sono gli anni Venti del duemila, quelli dell’età adulta un po’ così, di gente contenta in giro non ne vedo più tantissima, ma è di nuovo estate, e io quasi quasi lo rileggo.

Compleanno e mezzo

Buon compleanno e mezzo a me e a tutti quelli nati il 4 febbraio.

L’idea di festeggiare il compleanno e mezzo venne all’abate Villeret nel Settecento. Egli si accorse che i bambini ospiti nell’orfanotrofio di Corgémont, nati d’inverno, non potendo festeggiare la ricorrenza all’aperto come quelli nati d’estate, mostravano via via tendenze depressive al crescere dell’età.

Allora decise che anche i primi avrebbero festeggiato il compleanno nella bella stagione, usando l’accorgimento di aggiungere sei mesi alla data di nascita. In poco tempo notò che l’umore dei nati d’inverno, ma festeggiati d’estate, migliorò tantissimo, ma suo malgrado dovette anche notare che quelli nati per davvero d’estate mal sopportavano dal punto di vista psicologico la presenza, magari nello stesso giorno, di un festeggiato vero (loro) e di uno per così dire falso (quelli dei sei mesi dopo), sviluppando negli anni un rancore che poi sarebbe esploso in tendenze omicide, fino all’episodio passato alla storia come il Massacro delle Candeline.

La notte del 23 agosto 1782 infatti quelli che compivano gli anni d’estate assalirono i loro colleghi nati d’inverno a colpi di candeline (allora si usavano ceri di ampie dimensioni) trucidandoli quasi tutti. Lo stesso abate Villeret dovette fuggire e si salvò per miracolo, rifugiandosi a Parigi dove terminò i suoi giorni scrivendo un libro dal titolo “Del perché bisognerebbe festeggiare i compleanni solo d’estate e quali accorgimenti prendere affinché non emergano contrasti”, di cui ben presto si persero le tracce.

Grazie a Tom Deschamps per la foto, forse stavo pensando a questa stupidaggine inventata di sana pianta.

Ma che ne sapevo io

Ma che ne sapevo io che con tutta quella gente, tutto quel materiale, tutta quella salita, la locomotiva non ce l’avrebbe fatta, e che c’entro io se settecento persone erano salite in un treno merci pagando il biglietto, e chi glielo aveva fatto il biglietto, mica io, io dovevo solo condurre il treno, e il mio collega doveva solo buttare il carbone e lo buttava eccome, ma il treno si stava fermando proprio dentro alla galleria, mettine altro gli dicevo, ma più di così non si poteva, e anzi dopo che ci siamo fermati, che la salita era troppo ripida, il treno troppo pesante, abbiamo cominciato a retrocedere, e la locomotiva attaccata dietro alla mia – ed era un caso che ci fosse una seconda locomotiva, di solito era una sola – la locomotiva attaccata dietro alla mia dicevo, una volta che ha visto che stavamo tornando indietro, dai si mette a spingere ancora più forte in avanti, e quindi noi che vogliamo andare indietro per uscire dalla galleria, lei che spinge per andare avanti, e nemmeno ci vedevamo fra noi conduttori, che io ero su una locomotiva austriaca, stavo da una parte, e l’altro stava su una locomotiva italiana, stava dall’altro lato, e come se non bastasse ci si è messo anche il frenatore del carro di coda, che dato che c’era tira il freno, insomma è stato un disastro, siamo fermi in questa galleria, il carbone brucia, tutto quel fumo nero, il monossido di carbonio si sprigiona, io mi sento svenire, e forse sarà meglio, che non saprò mai che nel più grave incidente ferroviario mai capitato in Italia, più di cinquecento persone moriranno asfissiate, oggi è il 3 marzo del ’44 e a Potenza non ci arriveremo mai vivi, me compreso, cara mamma.

Sbagliare si sbaglia tutti

Sbagliare si sbaglia tutti, figuriamoci, e in quei giorni di febbraio del 1441 capitò a quelli che dovevano delimitare la frontiera fra lo Stato della Chiesa e la Repubblica di Firenze, con il risultato che un pezzo di territorio – che avrebbe dovuto appartenere agli uni o agli altri – non venne segnato sulla mappa.

Insomma, non era di nessuno.

Gli abitanti, circa duecentocinquanta, grazie a quell’errore di tracciamento si trovarono ad essere indipendenti per davvero, e dato che c’erano ne approfittarono per mettere su un po’ di traffici, anche perché non dovevano pagare tributi dei alcun tipo, e quindi niente dazi né tasse. La coltivazione del tabacco, ad esempio, venne incrementata a dismisura.

Questo piccolo stato, lungo due km e largo cinquecento metri, prosperò per molti anni. Intanto non aveva né esercito né carceri, e questa era già una bella cosa. Poi non aveva un vero e proprio governo, si decideva un po’ tutti insieme, anziani e capi famiglia. Poi c’era anche una sorta di presidente, che era il curato, magari perché l’unico che sapesse leggere e scrivere. E pure la bandiera, bianca e nera divisa diagonalmente.

La vita della Repubblica di Cospaia fu lunga, fino a quando i suoi stessi abitanti decisero che ne avevano abbastanza anche di tutti quei contrabbandieri che nel frattempo avevano preso dimora lì, e divisero equamente il territorio, metà ai fiorentini, metà alla Chiesa, come forse avrebbero dovuto fare quattrocento anni prima.

Era proprio il 26 di giugno del 1826.

Oggi Cospaia è una frazione del Comune di San Giustino, in provincia di Perugia, ma secondo me si sentono ancora un po’ indipendenti.

Strada provinciale 86

C’è una strada deliziosa che percorro spesso, ed ogni volta mi incanta per la sua bellezza. Dal luogo dove abito – Porchiano del Monte – scende dolcemente fino al Tevere e da lì è un attimo, si entra in autostrada o si sale su un treno, e si cambia improvvisamente condizione. Lassù la quiete del bosco e della campagna, laggiù la frenesia dei collegamenti veloci per raggiungere mete lontane. Un vento che tiene l’aria pulita in alto, la nebbia che troppo spesso accompagna le giornate di chi vive là in basso.

È una strada da percorrere lentamente, curva dopo curva, che all’improvviso ti può apparire un capriolo che fugge elegante, o più spesso una famiglia di cinghiali che scorrazza di qua e di là, o ancora gli istrici e i tassi che trotterellano con il loro incedere quasi buffo.

È una strada dove a volte mi fermo, quando incontro gruppi di ciclisti che pedalano, o qualche camminatore che va, perché l’ultimo tratto non è asfaltato, e la polvere è nemica di chi pedala o cammina, e basta così poco per fare un gesto gentile, che la mano alzata di chi ringrazia ti ripaga del leggero ritardo.

È una strada piena di punti incantevoli, che ci vorrebbero delle ore per descriverli tutti, anche prestando attenzione alla guida, ogni volta non ci si annoia, può essere la mietitrebbia che potente lavora ai lati dello “stradone”, o un albero da frutta fiorito che annuncia doni succosi, possono essere gli eucalipti che si muovono al vento (li avete mai visti?) o gli olivi centenari che stavano lì prima di te e ci staranno anche ben dopo.

Dopo il ponticello sul fosso di Lugnano, lì dove la strada fa una curva secca, e il Monticello rimane alto di fianco, questa si fa improvvisamente più dritta, ed è uno spettacolo guardare a perdita d’occhio a sinistra e a destra. Giove con il suo palazzo ducale da poco risistemato, il monte Cimino con Soriano lì davanti, Bomarzo che sta in prima fila, Montefiascone laggiù a destra, e bisognerebbe fermarsi, parcheggiare l’auto e mettersi a guardare, guardare, che di cose belle da vedere ce ne sono una infinità.

In quel punto la strada diventa quasi una dorsale, i campi scendono sia da una parte sia dall’altra, ogni anno le coltivazioni cambiano, e di conseguenza anche i colori e beato chi li vede tutti, ma anche chi li vede un po’ così come me, non può che rimanere a bocca aperta.

È una strada che incontra altre strade, che non sono da meno, quella a destra che sale, dell’Ospedaletto, che in fatto di panorami non le è da meno, quella a sinistra che scende, per poi risalire anch’essa verso Giove, di “Martinozzi”, quella più avanti che si infila nella Bandita, “bannita” se sei di qua, da poco risistemata, che scende nel bosco per poi arrivare ad Attigliano. Ognuna poi ha altri piccoli incroci, altre stradine che portano chissà dove e che ti fanno venire voglia di andare alla scoperta.

Una ventina di anni fa le belle case che la fiancheggiano apparivano abbandonate, che i vecchi ormai non c’erano più e nessuno voleva continuare a vivere in campagna. Adesso no, è tutto diverso, nuove famiglie sono venute a vivere qui perché hanno capito che il posto è bellissimo, le hanno ristrutturate, si vedono luci dietro alle finestre, comignoli che fumano d’inverno, presenze discrete e rassicuranti che fanno territorio abitato e curato, ma senza stare troppo vicini, che lo spazio è bello, la folla meno.

L’altro giorno ero a Roma, io maldestro in auto, in una periferia nemmeno delle peggiori, c’era una caos indescrivibile, la gente arrabbiata, qualcuno che mi superava a destra, mentre giravo a destra!, qualcun altro che cercava parcheggio da forse un’ora, un’aria che pareva più da masticare che da respirare, avrei voluto fermare l’auto e cominciare a chiedere alla gente perché stavano lì, venite dietro di me, tra quaranta minuti vi porto in un posto vivibile, potete continuare a parcheggiare in doppia fila perché tanto non se ne accorge nessuno, le case costano come il vostro dannato garage, ma fate presto, perché tra un po’ finiscono.

Si chiama strada provinciale 86, ed è deliziosa.

Polmonite

L’influenza o qualcosa del genere di cui mi lamentavo un mese fa, si è poi rivelata una insidiosa polmonite, ma oggi, dopo un giorno al pronto soccorso, due radiografie, tre prelievi del sangue, quattro antibiotici diversi e trenta giorni di febbre, pare completamente rientrata.

Vorrei ringraziare tutte le persone che indirettamente o direttamente hanno chiesto di me e mi hanno incoraggiato con telefonate, messaggi, visite e fornito supporto di ogni tipo. Anche quelle che sono passate per portare Lara a fare “un giro delle mura”, sono state un aiuto prezioso.

L’affetto è una delle medicine più potenti che abbiamo a disposizione.

Ogni tanto stare male fa bene, perché permette di calibrare le cose nella loro giusta importanza. Stare male con la partita IVA fa un po’ meno bene, ma pazienza. Aprile e maggio per una Guida sono i mesi di maggior lavoro, e io li ho persi tutti. Vorrei però ringraziare i colleghi che mi hanno sostituito, a volte con un preavviso davvero minimo, così ogni trekking e ogni escursione sono andati a buon fine lo stesso.

Mi attende ora un periodo di convalescenza, per recuperare le forze perdute, e poter tornare finalmente a camminare a lungo, cosa che mi manca tantissimo. Appena posso mi rifaccio tutto il Cammino di Germanico, che percorso più bello non c’è, magari in compagnia, mi farebbe piacere.

Ogni tanto

Ogni tanto vorrei essere qualcun altro, da qualche altra parte, in qualche altro tempo, e mi diverto ad immaginare come sarebbe il Marcello se si trovasse in vite altrui.

Non vado mai da solo in queste fantasie, ma porto con me anche amici e conoscenti, cercando di adattare ognuno di loro a questo o quel personaggio, o buttandoci tutti dentro ad una categoria senza stare troppo a vedere chi è questo e chi è quello.

Ho amici e conoscenti che starebbero benissimo nel ruolo di pontefici, qualcuno che non sfigurerebbe come generale napoleonico, altri che anche come filosofi potrebbero dire da loro, e poi una marea di eretici, che ognuno la pensa a modo suo e temo parecchi sarebbero finiti sul rogo, ma tant’è.

La lettura serale di alcuni diari che tenevo nel periodo universitario mi ha fatto tornare in mente persone di cui nel frattempo ho perso le tracce, complice anche questo trasferimento in terra umbra, la lontananza non aiuta.

Eccoci allora, tutti clerici vagantes nelle mie fantasie, gente che andava di università in università, cantando gaudeamus igitur (“godiamo dunque, finché siamo giovani, che dopo la scomoda vecchiaia, ci riceverà la terra…”), tanto il latino era la lingua internazionale e ci si capiva, e poi lo status di chierici permetteva di godere di protezioni e immunità, che la gente di chiesa – si sa – preferisce farsi giudicare solo da gente di chiesa.

E nei pensieri vago anch’io dalla mia gioventù a quella del medioevo, ricordo le cazzate che facevamo e le paragono a quelle dei nostri colleghi del passato, e le autorità che protestavano, oggi come allora, per certi comportamenti sopra le righe, goliardia si direbbe, e poi il limite chi lo stabilisce?

(“Alla malora la tristezza, alla malora chi ci odia, alla malora il diavolo, chiunque sia contro gli studenti, ed i denigratori”), quant’è bella giovinezza, avrebbe detto più tardi Lorenzo il Magnifico, aveva ragione, ma anche da adulti se le cose vanno bene non è che sia tutto ‘sto dramma, anzi, si possono dare zampate mica male e poi raccontarcele fra noi e farci tante risate.

Chissà se si capisce quello che ho scritto, io non correggo, tra un minuto è l’una, è ora di pranzo e devo pensare a cosa mangiare, riponiamo queste fantasie e torniano alla vita concreta.

Perizia ed umanità, gentilezza e sorrisi

“Attento ai gomiti, quando passi di lì, che se no si rompe pure quelli”, dice l’operatrice più esperta al ragazzo che sta accompagnando una persona anziana – stesa sul lettino – verso la sala operatoria, mentre la fa passare da una porta. “Sì, sì, ci sto attento”, risponde lui, e prosegue veloce lungo il corridoio con il suo carico di sofferenza.

Il giovane medico che somiglia ad Alessandro Gassman procede spedito verso la macchinetta del caffè, inserisce la sua scheda, e gentile subito si fa da parte, invitando con la mano i praticanti a scegliere quello che vogliono. Pochi istanti con un bicchierino caldo tra le mani, in attesa del paziente successivo, due chiacchiere in libertà, e il suo sguardo furtivo che segue l’infermiera bella che passa accanto, chissà come si chiama.

Penso al terremoto, mi guardo intorno, ma è solo un carrello pesante, pieno di contenitori vari e di fogli con i risultati delle analisi di laboratorio, spinto da un uomo che procede incerto guardandosi attorno, che ormai sono anni che lavora lì, ma ogni volta capire dove si trova quell’ambulatorio dove li deve consegnare, è davvero un’impresa, forse fanno apposta a cambiare posto, per renderci la vita più dura.

“Ma non eri in pensione?”, chiede un altro che passa di lì, con una stampante guasta tra le braccia, “ma vaffanculo”, risponde lui ridendo, forse è ancora presto per andare in pensione, o forse è già troppo tardi, chissà.

“Dottore, se ha cinque minuti io sono qua”, sorride l’informatrice del farmaco, “finisco con un paziente e poi vediamo”, replica lui, e comincia l’attesa, un lavoro fatto di tante attese, sgradevole ai più, che a volte ci passano davanti mentre aspettiamo il nostro turno, ma ci vuole pure quello, magari presentano la nuova medicina che ci farà guarire, ma meglio se la presentano il giorno prima della nostra visita.

Un giovane manutentore passa con un depuratore in mano, lo dice lui che si tratta di quello, mentre al telefono si lamenta con il collega perché è ancora al primo piano e deve arrivare fino al quinto. Un cilindro di metallo, pesante, che andrà a sostituire un pezzo analogo, chissà dove.

Ogni quarto d’ora un paziente steso sul letto viene accompagnato verso le sale operatorie, mentre qualcuno implacabile lo osserva nella sua fragilità, ma altri per fortuna abbassano lo sguardo, o lo volgono altrove, che mica è bella questa curiosità morbosa verso chi sta attraversando uno dei momenti più difficili della propria esistenza, il passaggio stretto della clessidra.

“Ora ti tolgo l’ago”, dice l’infermiera alla persona che ho accompagnato a fare un esame, e che aspetta seduta in corridoio che l’anestesia passi, prima di tornare a casa. “Però mettiamoci un po’ in disparte, che qui è pieno di gente”, aggiunge premurosa e gentile.

Esco dall’ospedale dopo un paio d’ore, e mi giro a guardare in alto le finestre, pensando a chissà quante persone stanno combattendo una battaglia lì dentro, e sono grato verso chi le sostiene con perizia ed umanità, gentilezza e sorrisi.

Coraggio, che domani starete già meglio.

E visse nel Settecento

Il suo ruolo era grosso modo quello del nostro ministro dell’economia e delle finanze, ma in realtà aveva molte più competenze, poteva occuparsi di tutti quei settori in cui c’era una spesa pubblica ed il suo compito era quello di tagliare, risparmiare, scovare nuove entrate. E ci riusciva benissimo.

Durante il suo incarico, inventò ad esempio un’imposta sulle finestre e sulle porte di una certa eleganza, che potevano rappresentare una dimostrazione di ricchezza e quindi ben tassabili.

Il suo re, Luigi XV, fu pure lui vittima dei suoi tagli, e dovette risparmiare su alcune spese che in precedenza faceva in maniera spensierata.

Certo si attirò diverse antipatie, e il suo nome venne utilizzato per schernirlo, ad esempio per identificare i pantaloni senza tasche, che quindi non avrebbero potuto ospitare denaro. Un nome che identificava chi non poteva spendere, chi mangiava poco e viveva di niente. Un nome – infine – che poteva indicare anche un ritratto incompiuto, giusto il contorno di un viso, e nient’altro.

Si chiamava Étienne de Silhouette e visse nel Settecento.

Una scrittura sconclusionata

Anche un supermercato è un contenitore infinito di storie, con tutti quei suoi prodotti colorati disposti ad arte sugli scaffali e le loro provenienze più varie, nel tempo e nello spazio, e a volte mi sbaglio, compro una bevanda di soia, aromatizzata alla vaniglia, quando normalmente la prendo non aromatizzata, ma pazienza, non mi dispiace quell’aroma che sa di esotico e mi diverte pensare che l’origine della parola sia in fondo il latino “vagina”, che oltre a quella cosa bella indica in generale una guaina, un baccello, e dal latino diventa in spagnolo “vaina” e da qui poi appunto vaniglia, perché i suo i frutti somigliano a dei baccelli, insomma, una cosa simpatica, ma ancora più simpatica è la storia di quello schiavo, Edmond si chiamava, che il cognome gli schiavi mica ce l’avevano, e la vaniglia si produceva soltanto in Messico, perché lì c’erano delle api che riuscivano nell’impollinazione che altrove non avveniva, e Edmond, mi perdonerete questo post senza punti e senza capoversi, ma io talvolta sono così, mi piace scrivere sregolato, questo Edmond dicevo inventò vuoi per scherzo vuoi per dispetto, questo non è molto chiaro, a impollinare con le dita queste piantine, permettendo così la loro diffusione anche fuori dal Messico, e questo favorì l’enorme diffusione di questa pianta e del suo aroma, anche perché il nuovo metodo ne aveva abbassato il costo, e questo schiavo si meritò un premio per questa sua scoperta, gli chiesero che vuoi, ti vogliamo ricompensare, e lui rispose che voleva un cognome, proprio così, un cognome come le persone libere, e gli regalarono un cognome, che lui da quel giorno si chiamò Edmond Albius, che vuol dire bianco, vuoi mettere un nero che di cognome fa bianco, e quanto ne andava fiero di questa sua nuova identità, ma la vita non gli sorrise un granché, pare che quando la schiavitù fu abolita lui se ne andò in città a lavorare come lavapiatti, e poi rimase implicato in un furto di gioielli, e lì la vita gli virò verso il peggio, finì condannato a dieci anni di carcere, ma ne fece soltanto cinque, perché il governatore gli accordò la grazia, che lui aveva scoperto il modo di produrre la vaniglia a basso costo, mica cavoli, e insomma non so bene come andò a finire la sua vita, ma la terminò in povertà e la consegnò alla storia, e domattina quando mi berrò un po’ di bevanda di soia aromatizzata alla vaniglia non potrò fare a meno di ricordare questa persona e chissà quante altre storie sono legate al caffè, ai biscotti, ai fiocchi di avena, a tutto quello che per fortuna mi trovo a tavola, anche grazie a tutte le persone che hanno contribuito alla loro produzione, e comunque grazie anche a voi pochi che avete avuto la pazienza di leggere fino in fondo magari mandandomi a quel paese perché non ho messo né punti né capoversi per farvi respirare, ma stasera mi andava così, una scrittura sconclusionata ❤

Un fatto che ha del prodigioso

Oggi mi è accaduto un fatto che ha del prodigioso.

Ho aperto il cofano della mia auto, ho una Panda piuttosto agée, e non riesco a descrivervi la mia meraviglia nell’osservare il vaso di espansione del circuito di raffreddamento, non pieno del liquido apposito, ma colmo di olio motore!

L’ho portata subito dal meccanico, che dopo aver visto anche lui, e valutato l’entità del danno, mi ha rivolto uno sguardo interrogativo, e mi ha poi domandato se ero intenzionato a ripararla. Alla mia risposta affermativa, hanno cominciato a luccicargli gli occhi, si è allontanato un attimo, ma ho sentito che ha chiamato la moglie per dirle che potevano cambiare la caldaia. Nel frattempo le persone che erano lì nell’officina si sono avvicinate, e mi hanno fatto le congratulazioni, chi mi dava la mano, chi una pacca sulla spalla. Una signora che passava lì davanti, saputa la cosa, mi ha fatto baciare il suo bambino, e una ragazza giovane si è fatta un selfie insieme a me.

In poco tempo, il piazzale antistante l’officina si è riempito di gente, chi applaudiva, chi gridava il mio nome Marcello alé, Marcello alé, e dopo la cosa è diventata impressionante, mi hanno preso in braccio e mi hanno portato in processione fino alla chiesa parrocchiale, dove il parroco – a cui era già arrivata la notizia – ha sciolto le campane a festa e tutti siamo entrati, io sempre in groppa ad uno, e si sono messi tutti in ginocchio a recitare il Te Deum. Terminata la cerimonia, che mi ha commosso non poco, sono stato preso dal Sindaco e dalla giunta comunale che mi hanno voluto donare le chiavi della città e insignirmi della cittadinanza onoraria per meriti economici.

Un pomeriggio indimenticabile, ora aspetto il preventivo.

Sperpero?

L’altro giorno, mentre camminavo conversando del più o del meno con una persona, questa mi ha espresso la sua contrarietà per il fatto che la concessionaria del servizio pubblico televisivo italiano, sperperasse i nostri soldi in una manifestazione canora che va per la maggiore in questi giorni.

Io le ho risposto che – per quel che ne so – i soldi che questa concessionaria ricava dalla manifestazione, sono maggiori rispetto a quelli che vi investe, e che tante persone per un motivo o per l’altro grazie ad essa trascorrono qualche ora spensierata ascoltando musica e discorsi di vario tipo, che male c’è.

Sembrava finita lì, e abbiamo proseguito in silenzio, ma la mia mente come al solito ha fatto un capitombolo ed è tornata indietro di mille anni, che questo spesso mi accade, ogni cosa del momento è un pretesto per andare a frugare nel passato, che è pieno di cose, a dir la verità sparpagliate alla rinfusa nella mia testa, ma basta una parola e si scatenano una miriade di riferimenti.

E loro mi sono venuti in mente: gli scialacquatori!

Non sono mille anni, forse ottocento, ma ad ogni modo, in quel di Siena, un gruppo di ragazzotti, come “Bartolomeo dei Folcacchieri detto l’Abbagliato”, o “Caccianemico d’Asciano” o “Stricca dei Salimbeni”, e che ci posso fare, ci si chiamava così, si misero insieme e crearono una vera e propria brigata spendereccia, con lo scopo di dilapidare i loro consistenti patrimoni, spendendo tutti i fiorini qua e là nel modo meno virtuoso possibile.

Ah che spettacolo! Ci riuscirono, eh, è stato anche calcolato che questi spenderecci in un paio d’anni fecero fuori qualcosa come una quindicina di milioni di euro dei giorni nostri, e chissà quanto si svagarono, beati loro, ne parlò anche Dante nella Commedia e Boccaccio in una sua novella.

Poi tutti i nodi vengono al pettine, e qualcuno di questi ragazzi terminò la propria esistenza in miseria, temo infelicemente, come mi capita di leggere ultimamente di qualche cantante, che durante la sua carriera ha guadagnato cifre incredibili, e poi verso la fine della propria esistenza, si trova ad aver sperperato tutto, e richiede l’intervento dello Stato per farsi sostenere un po’.