“Attento ai gomiti, quando passi di lì, che se no si rompe pure quelli”, dice l’operatrice più esperta al ragazzo che sta accompagnando una persona anziana – stesa sul lettino – verso la sala operatoria, mentre la fa passare da una porta. “Sì, sì, ci sto attento”, risponde lui, e prosegue veloce lungo il corridoio con il suo carico di sofferenza.
Il giovane medico che somiglia ad Alessandro Gassman procede spedito verso la macchinetta del caffè, inserisce la sua scheda, e gentile subito si fa da parte, invitando con la mano i praticanti a scegliere quello che vogliono. Pochi istanti con un bicchierino caldo tra le mani, in attesa del paziente successivo, due chiacchiere in libertà, e il suo sguardo furtivo che segue l’infermiera bella che passa accanto, chissà come si chiama.
Penso al terremoto, mi guardo intorno, ma è solo un carrello pesante, pieno di contenitori vari e di fogli con i risultati delle analisi di laboratorio, spinto da un uomo che procede incerto guardandosi attorno, che ormai sono anni che lavora lì, ma ogni volta capire dove si trova quell’ambulatorio dove li deve consegnare, è davvero un’impresa, forse fanno apposta a cambiare posto, per renderci la vita più dura.
“Ma non eri in pensione?”, chiede un altro che passa di lì, con una stampante guasta tra le braccia, “ma vaffanculo”, risponde lui ridendo, forse è ancora presto per andare in pensione, o forse è già troppo tardi, chissà.
“Dottore, se ha cinque minuti io sono qua”, sorride l’informatrice del farmaco, “finisco con un paziente e poi vediamo”, replica lui, e comincia l’attesa, un lavoro fatto di tante attese, sgradevole ai più, che a volte ci passano davanti mentre aspettiamo il nostro turno, ma ci vuole pure quello, magari presentano la nuova medicina che ci farà guarire, ma meglio se la presentano il giorno prima della nostra visita.
Un giovane manutentore passa con un depuratore in mano, lo dice lui che si tratta di quello, mentre al telefono si lamenta con il collega perché è ancora al primo piano e deve arrivare fino al quinto. Un cilindro di metallo, pesante, che andrà a sostituire un pezzo analogo, chissà dove.
Ogni quarto d’ora un paziente steso sul letto viene accompagnato verso le sale operatorie, mentre qualcuno implacabile lo osserva nella sua fragilità, ma altri per fortuna abbassano lo sguardo, o lo volgono altrove, che mica è bella questa curiosità morbosa verso chi sta attraversando uno dei momenti più difficili della propria esistenza, il passaggio stretto della clessidra.
“Ora ti tolgo l’ago”, dice l’infermiera alla persona che ho accompagnato a fare un esame, e che aspetta seduta in corridoio che l’anestesia passi, prima di tornare a casa. “Però mettiamoci un po’ in disparte, che qui è pieno di gente”, aggiunge premurosa e gentile.
Esco dall’ospedale dopo un paio d’ore, e mi giro a guardare in alto le finestre, pensando a chissà quante persone stanno combattendo una battaglia lì dentro, e sono grato verso chi le sostiene con perizia ed umanità, gentilezza e sorrisi.
Coraggio, che domani starete già meglio.