Fra tutti i pirati e i corsari italiani (perché ce ne furono anche del nostro Paese), quello che mi ha affascinato di più è stato Giuseppe Bavastro, un nome poco noto fuori dall’ambiente della nostra marineria.
Partorito da sua madre nella spiaggia di Sampierdarena, dalle parti di Genova, e subito dopo lavato con l’acqua salata del mare stesso, salì su una nave per la prima volta da neonato, messo in una cesta e trasportato da Genova a Nizza nell’imbarcazione di suo zio.
Un predestinato.
Poco appassionato di scuola (rimase sempre analfabeta), ma grandissimo esperto di navigazione, visse fra Sette e Ottocento, rendendosi protagonista di molte avventure, in diversi mari del mondo.
Fra gli episodi che maggiormente vengono ricordati della sua lunga carriera, spesso al comando di navi vecchie e raffazzonate, si può citare la sua impresa durante l’assedio di Genova del 1800, quando ogni notte una nave inglese si presentava davanti al porto e lo cannoneggiava.
Bavastro mise insieme una ciurma presa qua e là, la imbarcò su una vecchia galea dotata di tre cannoni, e si lanciò all’attacco della ben più potente nave inglese. Una missione suicida, sembrò, ma che andò a buon fine, una cannonata spezzò la nave nemica in due, facendola affondare e impedendo ulteriori bombardamenti della città. Le altre navi inglesi gli diedero addosso, lui non si arrese, continuò a combattere sul ponte in un cruento corpo a corpo e quando stava per soccombere, riuscì a buttarsi in mare e a salvarsi.
Fu protagonista di episodi simili in varie zone del Mediterraneo, tanto che ancora in vita cominciò ad essere una leggenda per la gente di mare e non mancò di navigare anche nell’altra parte del mondo, al servizio della rivoluzione di Bolivar in Venezuela.
Napoleone lo definì “l’unico mio ammiraglio vittorioso”, e Giuseppe Bavastro qualche tempo dopo progettò anche di liberarlo mentre era recluso nell’Isola d’Elba, ma almeno a questa idea dovette rinunciare.
Ormai in là con gli anni, ottenne la cittadinanza francese, e fu nominato comandante del porto di Algeri, città che conosceva molto bene, e di cui era pratico anche della lingua che vi si parlava.
Morì proprio lì, verso il 1833, e pare che le sue ultime parole prima di spirare siano state “Aprite le finestre, voglio vedere il mare”.